La fama si accompagna spesso al successo? Essere conosciuti non significa necessariamente essere al centro di tutto, non significa neppure compiere un buon lavoro forse… e allora, ritorniamo al primo pensiero: sicuri che fama e successo coincidano con la qualità delle cose?
La presunzione di essere i migliori, la mancanza di confronto e di umiltà, gli scambi e i dibattiti sono forse le armi più pericolose che possano esplodere nelle mani degli artisti, dei curatori, dei critici e di chi gravita attorno al sistema dell’arte.
Bisognerebbe stare sempre con chi è migliore di te e imparare a trasmette e assorbire gli insegnamenti, ma chi è disposto alla fatica e alla gavetta oggi? Sembra che sia sempre tutto così difficile e insormontabile, d’altra parte non è corretto neppure sfruttare chi voglia apprendere e piano piano crescere così come non è pensabile che il salto di qualità avvenga in poco tempo.
Incoraggiamenti e pacche sulle spalle servono ben poco se si continua ad essere definiti “stagisti a vita” e “super giovani promesse” (non mantenute): è il danneggiamento effettivo alla salute dell’arte.
Non è vero che l’uomo deve imparare solo ed esclusivamente con la fatica e il sudore, ma si acquisisce anche con il divertimento, la passione, lo scambio e il riconoscimento giusto del proprio lavoro.
Quello che importa è avere sempre fisso l’obiettivo e continuare a perseverare, lottare e usare il sacrificio come la migliore delle opzioni, le dosi di ironia e curiosità possono servire a valorizzare ancora di più il nostro operato, senza per forza shockare, stupire o scandalizzare come le peggiori starlette dei salotti televisivi tutte risa botulinate e silicone.
Fanno così paura la cultura, il sapere, la discussione non urlata e il confronto?
Pare di sì! Nessuno è più disposto ad aspettare e ad apprendere, lo spavento più grosso è forse dovuto alla mancanza di followers nei social network, all’abbandono di iscritti alla newsletter, al calo di immagine, ai mancati like… eppure a Gesù Cristo sono bastati solo dodici discepoli per diffondere il verbo avendo l’idea giusta, quindi la qualità e la quantità non devono per forza coincidere e andare di pari passo: ciò che è tanto non è obbligatoriamente anche buono.
A cosa si assiste allora ad un ventennio dal 2000? Al tripudio degli intramontabili Impressionisti batti-cassa-strappa-biglietto nelle varie città; all’attenzione mediatica perversamente curiosa dietro agli street artist sconosciuti di cui si sente (?) il bisogno di sapere e capire chi siano, Banksy fra tutti in primis; alle esposizioni urlate che coprono secoli di storia; alle immancabili visioni di “sguardi al femminile” (come se nell’arte ci fosse un’arte che si esprime in base al sesso); non mancano poi i richiami e gli specchietti per allodole per la massa che si accalcherà nei bookshop dopo l’ennesima gita fuori porta; e ancora ecco un’altra imperdibile mostra su Frida Kahlo che ormai pure lei non ne può più di essere definita “brutta e geniale”; terminiamo poi con il corpus di opere presentate in una nuova collezione “acquisita” da qualche banca o Fondazione e direi che così la misura è colma!
Possibile che non ci sia la voglia di giocare e mettersi in gioco senza arrivare al secondo fine? Fame di fama, paure e coraggio in seconda linea, non resta che diventare creativi per soli pochi istanti, costa poco e non si rischia, anzi, non si viene neppure presi in giro se non vanno bene le cose.
Nelle nuove generazioni non si crede e non si rischia, ma le nuove generazioni si prendono il tempo necessario per lasciare un segno? Un segno che non sia solo quello di qualche storia su Instagram o un filmato su Youtube, prima di essere un influencer bisognerebbe capire e imparare a crescere per sé, non per gli altri, non per la visibilità, non per creare seguaci, non per sentirsi ricchi di niente ma, paradossalmente, pieni di istinti e non solo di istanti.