A chi mi rivolgo? A chi scrivo? A me? No…non solo, forse anche ai viaggiatori silenziosi che camminano ai lati di strade diverse, alla cultura che li ha macchiati e sporcati per sempre, a quelle stelle che non brillano a caso, agli eredi di Vincent, ai tormenti e alle cime tempestose che solcano i mille deserti dei Tartari e, soprattutto, a chi conclude con gli errori.

Quali errori compie chi sceglie il lato opposto della strada? Non parlo di chi segue la massa, ma di chi si trova invece lontano da tutti e guarda la vita degli altri scorrergli accanto, senza possibilità di compiere il salto che tutti considerano giusto e necessario per essere come dicono loro “felici”.

Sono errori quindi quelli che si fanno quando non si percorre la stessa via? Per essere felice si vede che cosa? La vita che passa di chi nonostante gli sbagli epocali, le scelte economiche, le vicissitudini, gli amori ti ritrovi tu ad essere quello “sbagliato”, hanno ragione loro e tu torto? Non sarà che chi vive pensando che la Terra è piatta sopravvive meglio di chi, come te, sa che in realtà è sferica?

Sei tu quello diverso che si mette a guardare le foglie degli alberi mentre tutto il resto guarda le nuvole e si accorge delle cose piccole e inutili mentre il mondo gli scorre addosso, come uno stanco fiume che ripete le stesse vie, le stesse pieghe nel terreno e che scava inesorabile il paesaggio solcando pacifico un mondo stanco di averti addosso.

È l’animo di chi pensa di essere la falla nel sistema così perfetto e congeniale in un’epoca in cui apparire è tutto e l’essere è niente, con la sua data di scadenza prosegue a rotolarsi e a far sue capriole nel prato, con l’erba che pizzica le gambe, con l’acqua gelida da un rubinetto che salta sui denti, con gli occhi arrossati dalla polvere e quell’aria che sa di nuvola e che congela i polmoni, perché poi questi gesti da bambino verranno spazzati una volta cresciuti e gli adulti incattiviti metteranno il diverso nell’altro lato della strada.

Sei nel giusto, sei nella parte buona della vita, sei limpido e vero, ma sei inutile a quanto dicono, perché sei l’anima gentile che ancora accarezza i boccioli a primavera, che si stupisce della sabbia bagnata sulla riva del mare, che ghiaccia gli occhi succhiando di colpo una granita e che ordina i biscotti in fila a colazione. Cosa sei? Uno scrittore? Un artista? Un’esplosione sorda di bellezza inespressa? Sai le date dei tempi, conosci i nomi del passato, calpesti il suolo di chi ti ha preceduto, annusi il tempo di una tela, lisci il marmo di un corpo scolpito, segui le nuance cromatiche, incanti l’udito con suoni soavi, lasci che gli occhi piangano nella lettura di antiche lettere e soffri e gioisci e pulsi di vita nei pori di corpo caldo e sudato.

Cosa sei? Sei l’errore? Sei l’orrore per chi non ti capisce? Sei una macchia nera nel mezzo del bianco niente? Sei parte della cultura che è ora scordata e relegata nelle cose superflue, non sei più nemmeno un giocattolo usato nel tempo in cui da bambino giocavi a fare il bambino. Cosa sei?

L’utile è la prova che servi, l’effimero è solo ciò che non sei.

Perché continuare a camminare dall’altro lato della strada? Per quanto ancora? Fino a quale meta? I giorni diventeranno mesi e i mesi anni e i cassetti con i sogni imputridiscono ora nel buco nero del tempo che resta quando gli anni davanti non colmeranno mai più la distanza degli anni già passati.

Basteranno gli ostacoli a farti cambiare idea? Calici amari e fiele a imbrunire le labbra e marcire l’alito, vesciche ai piedi e calli alle mani non sono forse abbastanza per aiutarti ad attraversare la via e rimanere sull’altro lato?

Tagli profondi sul viso, graffi alle braccia, ginocchia sbucciate…segni che dovevano forse dire al figlio dell’uomo che era tempo di fermarsi. Invoco il fuoco purificatore, l’acqua che monda, il sangue che lava, fraterno e legato ai segreti mai detti, il vento scompiglia e disturba, fischia suoni e nomi lontani e tu, che farai dall’altro lato della strada? Cammina seguendo il fiume, cammina accanto al fiume, cammina con il fiume, cammina.

Non forgiare, crea, non plasmare, inventa, non servirti delle materie, sii materia.

Le grida non arrivano sempre all’orecchio, le più atroci sono quelle del silenzio mai dette, partono dall’inferno perché troppe profonde e arrivano in paradiso perché troppo inascoltate.

Ho paura di essere quello dall’altro lato della strada.

Quello che vede la felicità degli altri che trabocca nelle case calde, nei corpi salubri, nei lavori paganti e la compagnia si fa scura di fantasmi che diventano melanconia a cui ci si affeziona, di uomini deformati dal sole e dal fango che mangiano se stessi come le patate selvatiche, scure e raccolte dalla terra e che riempiono la bocca di un sapore amaro, di ferro, dello stesso gusto del sangue, della vampirizzazione di sé, al quale si chiede il sacrificio di succhiare la linfa vitale, di asportare la propria anima, di demonizzare l’idiota che è in sé.

È questa la vita che sognavi? Sperduto, fuori dal sentiero, con il fiume che hai abbandonato e che non senti più scorrere e ora, in un campo di giugno (o forse luglio) gracchiano gli uccelli, mentre ti graffiano le spighe al sole che tu vorresti vedere camminare sul tuo corpo nudo.

È un delirio di febbri alte, di sudori freddi, di calde orecchie che scoppiano, di gole arse e fa male, fa così male, ma sei dall’altro lato della strada, non è una scelta, non è una colpa, non è un delitto, non è un suicidio, ma è la vita di chi nella parola non trova il suo significato o l’origine, ma ne segue la grafia, solca i solchi, segna i segni.

Chi sei? Tormentato e pacifico pazzo? Chiamami come vuoi, non so definirmi, cammino solo dall’altro lato della strada, qualcuno mi farà compagnia, forse un cane che avanza e non domanda, altri simili occhi mi guardano, alcuni hanno scelto di attraversare il lungo ponte e fermarsi, altri sono scomparsi, sono forse solo? Forse solo in mezzo a tante solitudini, seguo il cammino per me tracciato, l’ho già vissuto, è mio e continuo, fino in fondo, fino a che sarò così stanco di avere un cuore, di contenere l’anima, di pensare e di creare, di credere che, in fondo, i sogni non sono che vetri infranti sul quale ora si riflettono dopo un lungo giorno altri sogni, altri riflessi, altre anime e capirò che quello che cercavo e volevo era solo uscire da qui, da viaggiatore muto senza voltarsi e senza rileggere nulla, a riveder le stelle.