Di solito gli uomini quando sono tristi non fanno niente;
si limitano a piangere sulla propria situazione;
ma quando si arrabbiano allora si danno da fare per cambiare le cose.”
(Malcolm X)

Per esprimere e creare qualsiasi forma d’arte tutto parte da un’emozione, quale sia questo input che tutto crea non lo si sa con certezza.
Un grande dolore, un’enorme rabbia, un grande amore, un’immensa gioia…tutto può servire per dare sfogo alla creatività.
Dai periodi blu e rosa di Pablo Picasso che trasmette le sue emozioni di pacatezza o tristezza nei colori, nei soggetti e nelle forme, alla felicità trasbordante vissuta nelle opere di Marc Chagall, fino alla perversione coloristica espressionista e tagliente dei quadri di Vincent Van Gogh o alle minuziose battiture calligrafiche di un preciso e segnico Paul Klee, fino a pervenire al corpo martoriato e usato dagli artisti della Body Art come Marina Abramovic e Gina Pane.
Pennellate di colore rabbioso dato da Jackson Pollock, campiture dense e pastose di Mario Schifano, graffi sui muri come momenti rinchiusi di Keith Haring o di Banksy.
Tutti cercano di esprime l’espressione di sé, del mondo che li circonda, delle certezze o incertezze che ogni giorno arrivano a far pace con il proprio mondo interiore che, mai contento e pago, subito dopo si ritrova a pensare a cosa dire, a cosa dare ancora.
È un puro atto di egoistico amore quello che pervade l’arte che si appaga solo con la ricerca, con lo studio continuo fatto di contaminazioni, forme, colori, incontri e scontri, influenze storiche e sociali miste a emozioni personali.
La gioia e la tristezza in Pablo Picasso, l’amore in Marc Chagall, la melanconia che sfocia nella pazzia in Vincent Van Gogh, la musica e il silenzio per Paul Klee, la consapevolezza del proprio corpo in Marina Abramovic e Gina Pane.
L’alcool e la rabbia in Jackson Pollock, l’amore incontrollabile e bulimico per la vita di Mario Schifano, la denuncia sociale e il disagio per Keith Haring o Banksy.
Non stupisce per niente che i sentimenti basici degli uomini siano la causa scatenante e responsabile dei rapporti e delle impressioni che si fissano poi come immaginario collettivo: la rabbia, l’amore, la tristezza, la gioia, la conoscenza e accettazione di sé, l’affermazione del verbo giusto sono comuni tra gli uomini che, se è vero, sono il prodotto del Dio che li ha creati.
Un Dio che nei secoli ha assunto mille nomi e forme, ma che alla base ha predicato come amare se stessi e il prossimo, forse con scarsi risultati per questi esseri “a sua immagine e somiglianza”.
Nessuno in fondo è un Dio, si è solo esseri niente affatto speciali, forse con qualcosa di unico che ci fa eccellere rispetto ad un altro uomo, ma la base del calderone umano sono i sentimenti.
Quante volte per rabbia o per grande gioia lo sfogo arriva solo dopo una corsa o a cucinare torte, magari ad imbrattare fogli e tele, a plasmare parole su un foglio oppure ad accordare suoni con una chitarra?
Ne abbiamo bisogno. O meglio: ne abbiamo bisogno? Il senso cambia…
La data di scadenza imposta nell’uomo fa si che il progetto artistico di Dio sia presto consumato per un futuro prossimo a cui lasciare altro spazio, altre persone che prenderanno il nostro posto, ma con le stesse emozioni primarie passate e ripassate e acquisite nel tempo come carte da scoprire ancora un’ennesima volta.
Mai diffidare delle ragioni primarie che conducono l’uomo agli stadi emozionali più necessari e puri: ci si arrabbierà ancora, così come ci sarà ancora posto per amare una persona, un oggetto, un’idea, ci saranno ancora dubbi e certezze, ancora cose che devono avanzare nonostante tutto.
Nei segni di un Jackson Pollock ci si ritrova, nei colori di un Pablo Picasso ancora ci si perde, negli attacchi da grande abbuffata di Mario Schifano ci si immerge, tutto questo perché si “rischia” ogni giorno di aver necessità di cose da fare e vedere che siano vecchie o nuove poco importa e il bisogno basilare rimane solo uno, quasi un imperativo: vivere.