Pubblicato il 17 febbraio 2017 in http://vecchiatoart.blogspot.it

Scattarsi i selfie oggi è diventato quasi un status symbol più che una moda, bisogna far vedere dove si è, con chi si è, tenendo sempre presente quale sia l’angolazione migliore per esaltare al meglio sia il luogo che l’autoscatto del proprio io: se non (auto)scatti non sei nessuno!
Eh sì, prima di essere chiamati comunemente “selfie”, termine derivato dalla lingua inglese, si parlava di autoritratto, autoscatto che, grazie alle moderne tecnologie (smartphone, tablet o webcam), ha preso sempre più piede puntando l’obiettivo verso di sé, condividendo poi il tutto nei vari social network.
L’uso smoderato dei selfie, la voglia di apparire e di documentare dove si è, ha assunto termini tipicamente narcisistici mentre, sovente, la lettura di una scarsa autostima e una ricerca di autoaffermazione fa scaturire un aspetto superficiale che si ferma al gesto compiuto: scatto dunque sono.
L’azione personale che si rivolge al proprio Io è comunque transitoria e si basa molto spesso sulle reazioni altrui, si perde la spontaneità dello scatto a favore invece della ricerca dello “scatto perfetto” che evidenzi l’esteriorità e l’apparenza che possa poi, nel risultato finale, piacere alla massa.
Non c’è ricercatezza artistica nel selfie, solo la voglia di apparire visibile con quanti più “like” nella dimensione social dove tutto è ciò che (non) appare.
Non si può quindi parlare di autoritratto fotografico vero e proprio in quanto la fotografia è un processo che si basa sull’immagine fissata su pellicola o su supporto digitale e poi sviluppata per bloccare ciò che si è carpito nell’istante dello scatto.
Con il selfie no, si perde questa prerogativa a favore del “tutto e subito” e si appare immediatamente e che, per mezzo di applicazioni apposite con filtri e luci, si restituisce una parvenza edulcorata e falsa sullo stesso schermo: un selfie è la raffigurazione di ciò che si vorrebbe essere e di come si desidererebbe apparire.
Si è lontani anni luce dai famosi autoritratti della storia dell’arte, i nomi di artisti che si sono fissati su tela, scavati con la scultura o fermati per un istante in fotografia sono l’esempio di un modello di sé che si stabilizza come conoscenza e analisi della propria persona.
Raffaello, Parmigianino, Piero della Francesca, Jan van Eyck, Michelangelo, Leonardo, Albrecht Dürer, Caravaggio, Gian Lorenzo Bernini, Pieter Paul Rubens, Rembrandt, Camille Pissarro, Claude Monet, Vincent van Gogh, Frida Kahlo, Andy Warhol, Francis Bacon sono solo alcuni dei nomi degli artisti che usano l’autoritratto come forma artistica quasi come sperimentazione di tecniche e configurazioni alle quali sottoporsi attraverso uno specchio.
La stessa cosa vale, in un certo qual modo, per i ritratti, simbolo di un momento storico personale che rimane fissato sia come operazione di memoria che di autocelebrazione.
Il selfie non mette la persona di fronte al mondo reale, la realtà è edulcorata e falsata, certo, lo è anche con i “ritocchi” effettuati nei ritratti, ma le smorfie, la bocca a cuore, i falsi sorrisi di felicità e certe espressioni rimbambite mostrano tutto fuorché la reale predisposizione alla tangibile concretezza che circonda il malcapitato selfista.
Ok, il selfie annuncia l’egocentrismo, il narcisismo, la presenza in un luogo, l’ebete espressionismo contemporaneo di chi sorride in camera e annuncia ai social “io sono qui“.
Selfie ai funerali, nei bagni pubblici, nei camerini di prova, di fronte ad una catastrofe naturale, arrampicati sui monumenti storici, davanti ai quadri in un museo sono tutti esempi di uno specchio che riflette il tempo odierno che anticipa nuovi cambiamenti, dove la visibilità e l’essere famosi in qualsiasi modo, anche a costo di apparire ridicoli e irrispettosi, è scesa dai famosi quindici minuti profetizzati da Andy Warhol ad un solo istante, ad un solo click.