Pubblicato l’8 maggio 2015 in http://vecchiatoart.blogspot.it

Spesso a fiere, mostre ed inaugurazioni si sente dire “Non ci sta più l’arte di una volta” che, per inciso, l’arte di una volta era quella contemporanea di allora…
Con faciloneria ci si scorda che il contemporaneo passato non era cosi apprezzato come ora, blasfemia nelle mie parole? Orrore culturale nell’esporre questa tesi? No, affatto… basti pensare ad un secolo e mezzo precedente quando giovani artisti rifiutati dai saloni ufficiali, dalle esposizioni accademiche e perfino dalle piccole associazioni parallele nate come satelliti a quelle ufficiali, si ritrovarono in un posto isolato da Dio e poco conosciuto: un sottotetto da cui si erano ricavati uno spazio in uno studio fotografico e, attenzione, non stiamo parlando di un moderno attico ma di un ultimo piano vicino al cielo.
Chi sono? O meglio, chi erano questi artisti? Sono ragazzi bohémien di fine Ottocento che, con il nome di Impressionisti, passeranno alla storia.
Al tempo, nel 1874, furono derisi e poco idolatrati tanto che il loro nome nasce con tono dispregiativo: fanno impressione! Già ma non dovuto al carpe diem sulla tela, ma impressione di disgusto per un accavallarsi di segni e macchie di colore inconcepibili alla visione, anche se di vera visione si trattava.
Beh, il risultato? A distanza di decenni si organizzano corriere di persone per vedere la mostra di uno qualsiasi dei vari Monet, Degas, Renoir, Cézanne, Van Gogh e compagnia bella dove estasiate signore ammirano “quel quadro tanto caruccio che a casa mia farebbe un figurone” e poi i “turisti dell’arte” si accalcano ai book shop per comprare il souvenir che riproduce fiori o scene en plein air su foulard, ombrelli, matite e quaderni e moderni tappetini per il mouse.

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Lo avrebbero mai immaginato gli Impressionisti di finire un giorno anche sui fazzolettini di carta o ancora riprodotti su orologi e tazze per la prima colazione? Penso che il merchandising non fosse nemmeno nato come termine allora, di business non si parlava e neppure di realtà mediatica globale…ben vengano gli introiti monetari!
Ma allora mi chiedo, quale ispirazione trarre dal passato per far si che l’arte tutta non sia lo specchio dei tempi e delle tendenze contemporanee per non essere criticata? Risposta: nessuna!
Nessuno è profeta in patria, nessuno elabora un lavoro che viene subitamente stimato e nessuna forma artistica è pianamente apprezzata in primis in quanto risulterebbe sempre e comunque disturbante per lo spettatore che, o non è pronto a vedere l’attualità, o non è capace ancora di avere i mezzi per decodificare quello che gli si presenta.
Ad esempio, è notizia di questi giorni la realizzazione di una App per Smartphone che il comune di Roma ha messo in atto per identificare le opere di Street Art sparse nel territorio: la concretizzazione di un museo a cielo aperto!

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Bene, anche la Street Art appartiene al passato quindi, perché dico questo? Perché quando una forma d’arte viene istituzionalizzata, confermata, riprodotta, riconosciuta, venduta e rientra dalla porta principale attraverso musei, gallerie, fiere da cui nascono convegni, conferenze, lezioni, scritti, libri, film e la gente ne mormora… beh, entra di pari passo in un concetto di arte passata, perché capita, assorbita e assimilata.
Non è più ribellione, è accettazione, non si parla più di innovazione ma di adeguamento al principio di massa.
Piero Manzoni sconvolse con la sua Merda d’artista che riproduceva poi l’altrettanto sconvolgente forma alimentare della prima carne in scatola nella sagoma e nelle misure, oggi surgelati e take away sono all’ordine del giorno: è l’antropologia dell’arte quella inscenata.
I “graffitari” non sconvolgono più come negli anni Ottanta del Novecento, così come la musica rap e hip hop è ormai fenomeno alla portata di tutti tanto da entrare di prepotenza nei reality che tutto-mettono-in-piazza.
Chissà, dopo le App anche le corriere della Pro Loco per visitare i “musei a cielo aperto”?

1961 Merda d'artista n. 31